venerdì 25 agosto 2017

Un pensiero, prima della morte che non avvenne


(foto scattata a Parigi, Novembre 2016  qui)




Premessa:
non riuscirò mai a descrivere a parole quello che si prova in certe circostanze, è un limite mio, non sono una scrittrice. Però posso, grossolanamente e a distanza di mesi, descrivere quello che ho pensato durante una delle tante attese, in una stanza di ospedale, della durata di una decina di minuti. Il mio Dio delle piccole cose, quello al quale mi rivolgo per esaltare ed imprimere nelle cellule della mia epidermide, istanti che sono per me formativi, indelebili, essenziali alla mia sopravvivenza.
Siamo tutti composti da piccole cose.


L'infermiera mi guarda distrattamente il collo mentre alzo le bracca e mi sfila il maglione dalla testa, come faceva mutter quando ero piccolissima.
"Sgnora Leblanc, adesso arriva il dottore, si sdrai e cerchi di riposare".
Riposare dall'idea che, forse, da un momento all'altro mi potrebbe esplodere il cervello.
Fisso il soffitto verde per pochi secondi, poi prendo il telefono. Cerco su google la parola aneurisma. Ecco, com'era prevedibile, deriva dal greco antico. Ho sempre preferito le parole latine, sarà perché nonna L era una latinista che parlava in latino con i suoi colleghi insegnanti, ed io da bambina mi incantavo nel salotto di casa sua, seduta sulla poltrona verde, quella di velluto pesante con ghirigori fiorati, ad ascoltare adulti che discorrevano un po' in francese e un po' in latino. Parlavano di argomenti che non capivo, però ne intuivo lo spessore, l'importanza; come se tutto il fondamentale dell'universo avvenisse dentro le quattro mura di quello studio, pieno zeppo di libri, tappeti e odore di sigarette spente. Mi sedevo composta, senza fiatare, per paura di disturbare o di attirare l'attenzione.
Vuoi vedere che anche la parola neoplasia deriva dal greco antico? Ovvio,  c'è neus. Mentre aspetto il dottore, per distrarmi, cerco di pensare a qualche patologia grave, degenerante o mortale, il cui termine derivi dal latino. Invece finisco per approfondire le mie ricerche sull'aneurisma cerebrale e trovo scritte cose orrende. Sarà quello il mio destino, fredda, nel fiore maturo degli anni, esposta in una camera mortuaria, con parenti e amici che mi guardano la faccia di cera mentre si soffiano il naso. Penso ai miei bambini e caccio via l'idea della morte, digito aneurisma cerebrale guarire. E un po' mi incazzo; non posso morire, non me lo posso permettere. Ho deciso di non morire il giorno che ho saputo di essere incinta, la prima volta. Crescere da sempre con l'idea che la propria vita termini, prima o poi, è una mia peculiarità da allegrona; da cuor contento in corpore vacillante. Sono andata vicino, ma non sono mai morta. Mi sono sempre chiesta il perché; perché sono come dicono tutti "fortunata". Le probabilità che uno muoia facendo un incidente in autostrada o cadendo da un cavallo al galoppo, sono elevatissime. Io invece no, non sono mai morta. Sono rimasta deturpata dentro, sono cambiata, se possibile peggiorata. Sono diventata un'altra, una persona diversa, suscettibile e irascibile, impulsiva da quando ho capito che se non si dimostra tutto e subito, si perdono attimi di vita. E indecisa. Incerta, è il termine adatto. Talmente convinta della mie incertezze, da essere refrattaria nei confronti dei punti fermi. Ma essere sicuri delle incertezze, non è a sua volta una certezza?
Il risultato delle ricerche su google dà ragione a quello che hanno detto i medici. Il genio neurologo occhialuto libanese, che si muove all'interno del reparto come mia madre tra i suoi gatti, con dedizione, affetto e familiarità, me l'ha appena detto che non morirò perché lui annienterà questa patologia greca. Ho deciso che qualsiasi termine medico di origine greca esiste perché l'hanno inventato i greci antichi. Immagino Cinisca e Elpinice che disquisiscono sul perché esiste l'aneurisma nei cervelli degli ateniesi e degli spartani. Chi ce l'avrà più grosso? Sicuramente gli ateniesi! Asserisce convinta Elpinice. Provare ad annientarlo praticando un piccolo foro nel cranio e poi inserire una cannula di bambù, è la teoria di Cinisca. Per fortuna Elpinice ha un'altra geniale idea, che sottolinea, ancora una volta, la superiorità degli ateniesi. La stessa idea del genio libanese che mi vuole salvare la vita. Funzionerà? Cerco su google.
Se non dovesse funzionare, raggiungerò mia nonna. Mi manca tanto e non lo dico mai, lo penso sempre, però, continuamente. Ogni luogo che sfioro, ogni scarpa che indosso, ogni parola che leggo, ogni sorso di tè che bevo. Mia nonna è in ogni nota suonata la piano, in ogni croma e semicroma; in ogni pausa relativa. Il suo sguardo fiero, le sue piccole gomitate a cena, quando a causa della mia quasi totale assenza di diplomazia, guardavo e dicevo cose irritanti. La sua cultura, che mi ha accompagnata per 34 anni, senza mai lasciarmi un solo istante. Mi diceva che la nostra fortuna, mia e sua, è di essere donne curiose nei confronti dell'erudizione come le scimmie di Francis Bacon. Me lo diceva quando ero troppo giovane per capire che era un complimento, una forma di stima sconfinata verso di sé e verso di me, dove vedeva parte di quello che era. Ho avuto un'educatrice, la migliore potessi avere. La fortuna della mia vita. Che, volendo, potrebbe anche finire a causa di questa patologia greca che si annida spavalda ed inopportuna nel mio cervello, senza che nessuno l'abbia invitata.
Butto il telefono sulla poltroncina accanto al letto, con gesto di stizza, odio nei confronti di quest'universo delle risposte. Tutto contenuto in un apparecchietto fatto in Cina. Avete fatto caso che quando qualcuno vuole sapere qualcosa su qualcun altro lo cerca subito su google? A me non interessa scoprire prima del tempo chi siano le persone, a cosa serve saperlo? Sono talmente tante le risposte a nostra disposizione, che spesso ci facciamo domande superflue. L'obesità mentale dovuta alle troppe risposte, che corrisponde al sovrappeso del mondo cosiddetto civilizzato. Cibo, cibo ovunque, in ogni circostanza, persino nelle presentazioni dei libri, che basterebbe nutrire la mente. Cibo sui mezzi di trasporto, cibo in bagno (ho visto ciotoline con le caramelle vicino ai lavandini), cibo durante le riunioni di lavoro e durante le pause; cibo per le strade, nei vicoli più impensabili. Cibo surreale, innovativo; cibo infilato dentro le macchinette negli ospedali, nelle sale d'attesa, nelle università, nei sottopassaggi. Cibo inscatolato, surgelato, sottovuoto, liofilizzato, modificato, veganato, vitaminizzato, spremuto.
Le riposte sono diventate come il cibo. Ce ne sono troppe, ovunque, sempre a disposizione. E noi ci muoviamo grassi e flaccidi, apatici, viziati, in questo mondo pieno zeppo di responsi.
Non mi importa niente di quello che dice il web, la realtà dei fatti è che esiste un rimedio per quello che ho, ma che non si sa come andrà a finire, con certezza. D'altronde le certezze annientano l'evoluzione del pensiero. La mancanza di punti fermi ha favorito tutti i movimenti culturali e filosofici. Persino la scienza si è evoluta grazie al dubbio, che stimola la ricerca e l'approfondimento.

Il genio libanese salvatore di vite, entra nella stanza, mi accarezza la testa, e il suo sguardo dietro gli occhiali tondeggianti è rassicurante, sembra dirmi "non ti preoccupare, anche se muori sarà bellissimo".


Although the whole of this life were said to be nothing but a dream and the physical world nothing but a phantasm, I should call this dream or phantasm real enough, if, using reason well, we were never deceived by it.

Gottfried Wilhelm von Leibniz

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