mercoledì 23 settembre 2015

La sala d'attesa. (a fugue)

(Fuga, Kandinsky)

Seduta con le mani in grembo. La gonna a pieghe troppo corta per coprire le ginocchia, mette a nudo parte delle mie cosce da bambina bionda, ricoperte di morbidi e radi peli che le fanno apparire vellutate e bianchissime. Gambe, pesche non ancora mature, dove i nei sembrano essere piccole stelle a contrasto, come in un negativo di una foto del cielo. Rimango ferma a fissare la costellazione, provo anche ad unire i puntini con il dito, nella speranza venga fuori il solito cavallo al galoppo, quello della Settimana Enigmistica, con la criniera al vento e le zampe spigolose risultato di segmenti uniti con imprecisione da una matita mal temperata. Come passa lento il tempo di attesa per una bambina. Lunghissimi secondi riempiti da infiniti pensieri e idee, sul cosa fare dopo, più tardi, quando si sentirà libera. L'interminabile attesa del momento di libertà, questa era la mia giornata.
Seduta con le mani in grembo, osservo i quadri di fronte a me. Nella sala di attesa i dipinti sono un perno attorno al quale far ruotare altri pensieri. Per cui, penso a cosa fare delle mie penne colorate nuove a inchiostro profumato, mentre guardo quella strana faccia dipinta su una tela circondata da una cornice rossa lucida. Il volto di una donna, con i capelli neri sciolti che le cascano sulle clavicole sporgenti. I tratti del volto appena accennati dalle pennellate di un acquerello nero, e le labbra sottili rosso porpora, sono gli unici punti che mettono in risalto il dipinto. Lo sfondo, l'abito e le linee del corpo che raffigura un mezzobusto, giocano sul verde acqua ed il rosa pallido. Quel che conta sono i capelli, l'ovale del volto, il naso, la bocca. Gli occhi non ci sono. Una scelta stilistica, che a me sembrò essere frutto di una cattiveria pura. Si può lasciare una persona senza bocca, senza naso o senza capelli, ma privarla degli occhi senza un perché, senza una giustificazione scritta, una didascalia, no. Non lo accetto. Sono sempre difficili da disegnare, ma bisogna almeno provarci.
"Ti piace il quadro, piccolina?" mi chiede l'infermiera. "Sì, è bello."
Seduta con le mani in grembo, ho mentito. Consapevolmente. Con coscienza e soddisfazione. E mentre l'ho fatto, ho sorriso conquistandomi la simpatia di quella signora rubiconda con il camice bianco. La portatrice di notizie, tipo "Vieni piccolina, tocca a te!". Detestavo le visite periodiche dall'otorino. Quell'indagare dentro le mie orecchie, dentro le narici, con quello strumento freddo con la luce. Lo speleologo che si addentra nelle grotte del mio volto, scoprendo chissà quali creature mostruose, chissà quali deformazioni, malattie o menomazioni. Con quella luce sulla fronte mi sembrava un pesce abissale, mi faceva ridere, era pieno di ricciolini biondi che cascavano intorno alla fascia che aveva in testa, come un tennista che gioca al buio. Aveva una bruttissima pelle, visto da vicino. Ogni poro era un cratere rosso, ogni lentiggine un piccolo vulcano. Una faccia di interesse geologico, dove fronte, naso e bocca, sembravano il risultato della tettonica a zolle prodotta dalla sua epidermide.
Seduta con le mani in grembo, oggi, poggiate sui pantaloni neri che coprono le gambe infreddolite dalla prima giornata di autunno, osservo, nella sala d'attesa, il quadro di fronte a me. Raffigura un paesaggio con le montagne sullo sfondo, un bosco sulla sinistra e una casetta con i muri di pietra, sulla destra. Un olio anonimo, ma con una firma in basso a destra che non riesco a decifrare. La firma che attesta l'originalità di opere non originali. La cornice è bianca, in legno leggermente anticato. Stona con il dipinto, non lo esalta e lo rende ancora più banale. Le mie gambe, sotto ai pantaloni, conservano ancora un po' di abbronzatura sarda. Sono diverse rispetto a quando avevo otto anni. Non sono più così divertenti, né così candide. Guardo fuori dalla finestra e ripenso a luglio, al caldo, al mare, al riposo pomeridiano sulla sdraio con il libro aperto sul petto, alle mani dei miei bambini sempre sporche; di gelato, di sabbia, di giochi. Ai baci roventi e umidicci della buonanotte, in quelle serate estive ardenti dei 34 gradi a mezzanotte, il cielo con le stelle più vicine. Le guance arrossate, il profumo lieve della crema doposole, i ceri gialli contro le zanzare, i pianti per il troppo mare, i capelli lunghi annodati dall'elastico della maschera, le punture delle vespe, i cavalloni e l'odore pungente della poseidonia ammucchiata sulla spiaggia.
Nicole, torna seduta con le mani in grembo.
"Ammazza che brutto il quadro che ho difronte", scrivo su whatsapp alla mia amica.
"Fai vedere, fai vedere" clic, mando foto. "Ma no, dai, sei la solita sofista. È carino."
Appunto, è carino. Fa schifo. Scusi lei, segretaria distratta dalla vita fashion e dal tipo con il quale sta facendo sciusciu, lo sa che questo quadro fa veramente schifo?
Il tempo passa velocemente. "Prego, tocca a lei, madame".
Di già?


<< So, you want to write a fugue? La domanda viene prima formulata dal basso, e la melodia su cui viene cantata, costituisce, in termini tecnici, il 'soggetto' della fuga. Via via che le altre voci 'rispondono', e cioè ripetono la melodia in successione scendente (tenore, contralto e soprano), nasce una discussione sulle qualità richieste da questo tipo di scrittura. Il basso comincia a dire che ci vuole una certa dose di coraggio You've got the nerve to write a fugue, so go ahead (se hai il fegato di scrivere una fuga, fai pure). Il tenore pensa all'impiego del prodotto finito: So go ahead and write a fugue that we can sing (fai pure, ma scrivi una fuga che noi possiamo cantare), mentre il contralto, pur tenendo un'eccepibile condotta contrappuntistica, caldeggia un metodo audacemente antiaccademico: pay no mind to what we have told you, give no heed to what we've told you, just forget all that we have told you and the theory that you've read (non badare a quello che ti abbiamo detto, non pensare a quello che ti abbiamo detto, scordati quello che ti abbiamo detto e le teorie che hai letto). Dello stesso parere è il soprano, pur mantenendosi altrettanto ligio, almeno in questo punto, alle norme della fuga. L'incoraggiamento Pay no mind, give no heed e via dicendo costituisce il controsoggetto del tema fondamentale: so you want to write a fugue? che si ripresenta ora in varie tonalità per sottolineare un altro consiglio: for the only way to write one is to plunge right in and write one, just ignore the rules and write one, have a try. 
L'unico modo di scriverla è saltare il fosso e scrivere: lascia perdere le regole e scrivi, forza, provaci. >>

Glenn Gould