venerdì 16 ottobre 2015

Nudità.

Esistono notti diverse dalle altre, in cui la fatica a prendere sonno diventa gioia nel rimanere svegli. E ascolti, con ogni singolo frammento del tuo apparato uditivo, ogni vibrazione, ogni sussurro e flebile alito di vento. Come un segugio tendo le orecchie e le note annacquate dalla notte sono più forti di qualsiasi sinfonia abbia mai sentito. Apro la finestra per fare entrare il profumo del Kouglof che cuoce nel forno; il canto impastato dall'alcol di un uomo che passa in bicicletta suonando il campanello; l'aria pungente autunnale, ricca di conclusioni, di punti, di periodi da cominciate con la lettera maiuscola.
Mi sdraio sul divano di una casa a metà, mi vesto solo delle luci della strada. Il mio corpo leggero sussulta col freddo umido di foglie cadute; gialle, ocra, sospese a metà dalla pioggerellina fine di una notte uggiosa. Voci acute e melodiose di ragazzi e ragazze dopo il divertimento, risate che si mescolano, si sovrappongono, diventano musica, sottofondo dei miei pensieri, tela sulla quale disegnare a mano libera sensazioni, curve emotive, riflessi d'amore. Rimango sospesa tra il freddo ed il buio, con gli occhi chiusi sogno i boschi a pochi chilometri da me, una fanciulla in abiti medioevali, un cavallo ed un corvo. Un quadro preraffaellita. Sono solo dieci minuti di sonno, mi stringo nelle spalle, mi alzo scalza, lo scricchiolio del pavimento sotto al mio peso. Un corpo vissuto, che è servito, che è diventato spesso strumento, per me. Chiudo la finestra e il filo diretto col fuori si arresta in un istante. Rimango io, da sola con i miei brividi. Cerco una coperta, mi avvolgono e piango scrivendo un post su un blog che è un diario emotivo, con un cellulare che è la mia porta, senza rileggerlo, senza corredarlo di fotografie.
E rimango, finalmente, nuda.

lunedì 12 ottobre 2015

Love cannot be lost



Capita di scorrere le pagine del web a fine giornata, sullo smartphone, con la stessa noia e pigrizia di sempre. Un'azione meccanica compiuta in momenti di attesa, dove parole, immagini, fatti ed opinioni si mescolano e mi si presentano davanti senza che io, in fondo, li veda sul serio. La navigazione nel mare delle informazioni, sparse, disparate, spesso inutili. Notizie che trascinano verso altre notizie, e verso altre ancora, che forse mi porteranno ad acquistare un libro o ad entrare dentro un social network, con la totale apatia e indifferenza nell'assistere allo spettacolo globale della goliardia a tutti i costi.
Questo è il mio modo di vivere la navigazione. Imbarcarsi su di un peschereccio che tornerà in porto con le reti vuote, pronto per ripartire la volta successiva, nella speranza di pescare qualche pesce da vendere al mercato delle opinioni.
Mi burlo delle 'lucidi analisi', sbuffo nei confronti di chi vuole insegnarmi la morale, di chi si sente più sensibile della media verso i problemi del mondo. Sono allergica agli epitaffi, alle parole di solidarietà, alle auto promozioni, alle chat pubbliche tra amici che si capiscono solo tra loro. Mi snervano le gare di bravura, gli esercizi di stile, gli arabeschi che descrivono concetti banali, triti, noiosi, vuoti, ipocriti. Non nutro interesse nei confronti di chi promuove iniziative, o di chi sponsorizza terze persone degne di nota. Non credo mai a chi dice è una bella penna/persona, né a chi scrive poesie sotto alle fotografie. Non credo a chi condivide la felicità.
In questo mare a me ostile, dentro al quale sono più le volte nelle quali mi creo aspettative fallaci rispetto a quelle in cui trovo conferme, mi soffermo, più del dovuto, su un'immagine. Una fotografia, quella di Jim Carrey.
Jim è un attore diverso dagli altri. Sia per talento che per canale espressivo. Jim Carrey è, quello che io definisco, un attore speciale. Ha uno sguardo da folle artista di strada, di quelli che ti fermano nel parco di una metropoli e ti salutano levandosi il cappello. Sguardi spesso incontrati per caso, un giorno nel quale cammini di fretta stringendoti nel cappotto. Sguardi incrociati per pochi istanti e mai più dimenticati. Jim ha esattamente l'aspetto che ti aspetti abbia un uomo canadese, quella mescolanza di tratti somatici che partono dalla Francia ed arrivano fino alla Scozia. Un dna ben delineato dalla fisionomia, dall'altezza, dalla mascella e dal sorriso che si stampa e si squarcia sul volto declinandosi in infinite sfumature. Un sorriso maligno, da burla, da bugiardo, mai completamente autentico, mai totalmente fine a se stesso.
Jim Carrey nasce attore. Non lo diventa, lo è sempre stato. Non avrebbe potuto fare altro, non sarebbe potuto diventare altro. Nonostante nasca come attore comico, riesce a dare vita a personaggi drammatici uscendo completamente da qualsiasi schema auto imposto. Carrey non interpreta il dramma, lui è il dramma. Il dramma esistenziale, quello che non ha via di uscita né soluzioni.
È entrato sotto la mia pelle.
Mi soffermo sulla foto che mi appare sullo smartphone, insieme ad altre notizie, più o meno importanti. La foto di Jim che sorregge una bara. Leggo la notizia, senza mai soffermarmi sui contorni, ma sull'essenza, il fulcro, l'esigenza di conoscere le ragioni del dolore, non spinta da chissà quale morbosa curiosità, ma da sincero interesse. Partecipazione, rarissima in me, saltuaria come l'aurora. Non sapevo che la fidanzata di Carrey si fosse tolta la vita, non si parla mai sul web di lui. D'altronde non possiede né ha mai posseduto una villa sul lago di Como, non si è mai fidanzato con una velina, non fa pubblicità a caffè globali in ottomila capsule di colore diverso ma contenenti tutte l'illusione del vero espresso. Non vende né fabbrica illusioni. Lui è l'illusione. Lui è il dramma. Lui è l'attore.
Passo velocemente sopra parole sparse a caso, buttate là con fare da giornalista lestofante qualsiasi. Accozzate tra loro in modo pedestre, senza alcuna grazia né coerenza, al solo scopo di sbarcare il lunario. L'essenza mi rimanda ad un profilo Instagram, quello di Cathriona, un nome bellissimo, una donna struggente. Sfoglio il profilo come facevo da bambina quando mi facevano vedere gli album di famiglia. Li aprivo piano, con delicatezza, temendo che le foto si scollassero dai loro supporti adesivi. Poi avvicinavo il viso verso le foto che mi interessavano di più, o per mettere a fuoco meglio i volti nelle foto di gruppo. Ogni fotografia una sensazione diversa, dal conforto al rammarico, dalla nostalgia alla curiosità. L'album di Cathriona parla solo dei suoi occhi. Un cerbiatto malinconico, esile e visibilmente fragile. Ritratto come farebbe qualsiasi ragazza che vive gli anni duemila, con i selfie allo specchio del bagno, le inquadrature dal basso o di tre quarti, la modifica verso il bianco e nero, nel suo ultimo scatto. Comprendo subito. Solo un uomo come Jim avrebbe potuto innamorarsi degli occhi malinconici. Perché la malinconia non si può solo osservare, né ci si può limitare ad amarla. La malinconia va assecondata. Va cullata. Le vanno raccontate la favole della buonanotte, e non importa se ci sono gli orchi ed i draghi. Perché la malinconia li sa gestire benissimo.
Cathriona non era fatta per questo mondo, così lascia scritto. Con assoluta coerenza, con l'estrema lucidità di chi decide che qui non ci vuole più stare.
Love cannot be lost recita il tweet dell'attore sul profilo ufficiale.
Perché chi è capace di assecondare e cullare la malinconia è anche ben consapevole che l'amore non si può cancellare.



mercoledì 23 settembre 2015

La sala d'attesa. (a fugue)

(Fuga, Kandinsky)

Seduta con le mani in grembo. La gonna a pieghe troppo corta per coprire le ginocchia, mette a nudo parte delle mie cosce da bambina bionda, ricoperte di morbidi e radi peli che le fanno apparire vellutate e bianchissime. Gambe, pesche non ancora mature, dove i nei sembrano essere piccole stelle a contrasto, come in un negativo di una foto del cielo. Rimango ferma a fissare la costellazione, provo anche ad unire i puntini con il dito, nella speranza venga fuori il solito cavallo al galoppo, quello della Settimana Enigmistica, con la criniera al vento e le zampe spigolose risultato di segmenti uniti con imprecisione da una matita mal temperata. Come passa lento il tempo di attesa per una bambina. Lunghissimi secondi riempiti da infiniti pensieri e idee, sul cosa fare dopo, più tardi, quando si sentirà libera. L'interminabile attesa del momento di libertà, questa era la mia giornata.
Seduta con le mani in grembo, osservo i quadri di fronte a me. Nella sala di attesa i dipinti sono un perno attorno al quale far ruotare altri pensieri. Per cui, penso a cosa fare delle mie penne colorate nuove a inchiostro profumato, mentre guardo quella strana faccia dipinta su una tela circondata da una cornice rossa lucida. Il volto di una donna, con i capelli neri sciolti che le cascano sulle clavicole sporgenti. I tratti del volto appena accennati dalle pennellate di un acquerello nero, e le labbra sottili rosso porpora, sono gli unici punti che mettono in risalto il dipinto. Lo sfondo, l'abito e le linee del corpo che raffigura un mezzobusto, giocano sul verde acqua ed il rosa pallido. Quel che conta sono i capelli, l'ovale del volto, il naso, la bocca. Gli occhi non ci sono. Una scelta stilistica, che a me sembrò essere frutto di una cattiveria pura. Si può lasciare una persona senza bocca, senza naso o senza capelli, ma privarla degli occhi senza un perché, senza una giustificazione scritta, una didascalia, no. Non lo accetto. Sono sempre difficili da disegnare, ma bisogna almeno provarci.
"Ti piace il quadro, piccolina?" mi chiede l'infermiera. "Sì, è bello."
Seduta con le mani in grembo, ho mentito. Consapevolmente. Con coscienza e soddisfazione. E mentre l'ho fatto, ho sorriso conquistandomi la simpatia di quella signora rubiconda con il camice bianco. La portatrice di notizie, tipo "Vieni piccolina, tocca a te!". Detestavo le visite periodiche dall'otorino. Quell'indagare dentro le mie orecchie, dentro le narici, con quello strumento freddo con la luce. Lo speleologo che si addentra nelle grotte del mio volto, scoprendo chissà quali creature mostruose, chissà quali deformazioni, malattie o menomazioni. Con quella luce sulla fronte mi sembrava un pesce abissale, mi faceva ridere, era pieno di ricciolini biondi che cascavano intorno alla fascia che aveva in testa, come un tennista che gioca al buio. Aveva una bruttissima pelle, visto da vicino. Ogni poro era un cratere rosso, ogni lentiggine un piccolo vulcano. Una faccia di interesse geologico, dove fronte, naso e bocca, sembravano il risultato della tettonica a zolle prodotta dalla sua epidermide.
Seduta con le mani in grembo, oggi, poggiate sui pantaloni neri che coprono le gambe infreddolite dalla prima giornata di autunno, osservo, nella sala d'attesa, il quadro di fronte a me. Raffigura un paesaggio con le montagne sullo sfondo, un bosco sulla sinistra e una casetta con i muri di pietra, sulla destra. Un olio anonimo, ma con una firma in basso a destra che non riesco a decifrare. La firma che attesta l'originalità di opere non originali. La cornice è bianca, in legno leggermente anticato. Stona con il dipinto, non lo esalta e lo rende ancora più banale. Le mie gambe, sotto ai pantaloni, conservano ancora un po' di abbronzatura sarda. Sono diverse rispetto a quando avevo otto anni. Non sono più così divertenti, né così candide. Guardo fuori dalla finestra e ripenso a luglio, al caldo, al mare, al riposo pomeridiano sulla sdraio con il libro aperto sul petto, alle mani dei miei bambini sempre sporche; di gelato, di sabbia, di giochi. Ai baci roventi e umidicci della buonanotte, in quelle serate estive ardenti dei 34 gradi a mezzanotte, il cielo con le stelle più vicine. Le guance arrossate, il profumo lieve della crema doposole, i ceri gialli contro le zanzare, i pianti per il troppo mare, i capelli lunghi annodati dall'elastico della maschera, le punture delle vespe, i cavalloni e l'odore pungente della poseidonia ammucchiata sulla spiaggia.
Nicole, torna seduta con le mani in grembo.
"Ammazza che brutto il quadro che ho difronte", scrivo su whatsapp alla mia amica.
"Fai vedere, fai vedere" clic, mando foto. "Ma no, dai, sei la solita sofista. È carino."
Appunto, è carino. Fa schifo. Scusi lei, segretaria distratta dalla vita fashion e dal tipo con il quale sta facendo sciusciu, lo sa che questo quadro fa veramente schifo?
Il tempo passa velocemente. "Prego, tocca a lei, madame".
Di già?


<< So, you want to write a fugue? La domanda viene prima formulata dal basso, e la melodia su cui viene cantata, costituisce, in termini tecnici, il 'soggetto' della fuga. Via via che le altre voci 'rispondono', e cioè ripetono la melodia in successione scendente (tenore, contralto e soprano), nasce una discussione sulle qualità richieste da questo tipo di scrittura. Il basso comincia a dire che ci vuole una certa dose di coraggio You've got the nerve to write a fugue, so go ahead (se hai il fegato di scrivere una fuga, fai pure). Il tenore pensa all'impiego del prodotto finito: So go ahead and write a fugue that we can sing (fai pure, ma scrivi una fuga che noi possiamo cantare), mentre il contralto, pur tenendo un'eccepibile condotta contrappuntistica, caldeggia un metodo audacemente antiaccademico: pay no mind to what we have told you, give no heed to what we've told you, just forget all that we have told you and the theory that you've read (non badare a quello che ti abbiamo detto, non pensare a quello che ti abbiamo detto, scordati quello che ti abbiamo detto e le teorie che hai letto). Dello stesso parere è il soprano, pur mantenendosi altrettanto ligio, almeno in questo punto, alle norme della fuga. L'incoraggiamento Pay no mind, give no heed e via dicendo costituisce il controsoggetto del tema fondamentale: so you want to write a fugue? che si ripresenta ora in varie tonalità per sottolineare un altro consiglio: for the only way to write one is to plunge right in and write one, just ignore the rules and write one, have a try. 
L'unico modo di scriverla è saltare il fosso e scrivere: lascia perdere le regole e scrivi, forza, provaci. >>

Glenn Gould



venerdì 7 agosto 2015

L'abalone



L'odore salmastro della rete da pesca adagiata sul fondo della barchetta colorata di blu e rosso, attraccata lungo il molo, crea curiosi contrasti olfattivi con le eau de toilette blasonate, spruzzate copiose sui colli appena rasati di uomini in camicia di lino elegantemente sdrucita, o sulle caviglie di abbronzatissime ragazze vestite solo di corti e impalpabili vestiti di chiffon dai colori intonati alle smeralde acque di queste coste. Io, immobile tra un party lungo il mare e una barchetta pronta per la pesca, penso a metafore o allegorie da adattare alla mia situazione, come sempre. Ne trovo innumerevoli, alcune calzanti, altre incerte. Il tramonto violento e aranciato acceca, cerco gli occhiali da sole in borsa, buttati dentro senza cura, graffiati e corrosi, usati più che sfoggiati. Tastando con la mano l'interno della borsa mi fermo appena trovo la conchiglia, l'abalone, so che è lei; una parte ruvida l'altra liscia. La sento tra le mani, me la immagino, così neutra, mimetica, ruvida e irsuta, priva di colore e fascino da una parte e così liscia, luminosa, iridescente dai mille colori, meravigliosamente splendente, dall'altra. Ho trovato la metafora, la mia. La tiro fuori, la appoggio sul palmo della mano, la osservo come se non ne avessi mai visto una. La giro e la rigiro, stupendomi come una bambina tutte le volte che la magia si compie: da insignificante a meravigliosamente abbacinante.
Ci sono due tipi di avvistatori di abalone (o orecchie di mare, nome scientifico Hallotios), quelli che le scovano sul fondo del mare solo quando sono girate dalla parte iridescente e quelli che le vedono anche quando presentano la faccia mimetica, dello stesso colore degli scogli dei fondali marini mediterranei. Io appartengo alla seconda categoria, ma credo sia una questione legata all'esperienza. Ormai riconosco la forma e i piccoli fori lungo la parte bombata. L'abalone sott'acqua non deve essere cercata, deve capitare, così per caso, mentre si osserva la fauna marina, mentre si è immersi nel mare. Dei pensieri. E bisogna averne cura, la parte iridescente è molto delicata, sensibile alla luce, tende a spegnersi col passare del tempo, a diventare color latte, ad opacizzarsi. Per questo la conchiglia andrebbe tenuta al buio, dentro una scatola, e presa in mano ogni tanto con cura, per godere del suo splendore. Poche volte all'anno. L'abalone non è quotidiana, non può essere inserita nella routine di tutti i giorni, non si può tenere insieme alle altre conchiglie, dentro una ciotolina, come soprammobile. Per sopravvivere ha bisogno della propria assenza.

Esiste per te solo se ti ricordi di guardarla.

Poche volte all'anno.


Si può desumere che vi siano accanto al sole innumerevoli corpi oscuri, tali che non li vedremo mai. Questa, detto tra noi, è una allegoria; e uno psicologo della morale legge tutta la scrittura degli astri solo come linguaggio simbolico e allegorico, con il quale si possono tacere molte cose.

Friedrich Nietzsche, Per La Storia Naturale Della Morale


domenica 28 giugno 2015

Sistemi complessi.



Entro di corsa in farmacia, è tardi, ho fretta, mi serve tanto di tutto per farmi passare ansia e mal di testa. L'aria condizionata e l'odore di chimica farmaceutica, qualche ascella pezzata, un insofferente in coda con lo spippolo telefonico, un bambino che strilla in braccio alla mamma, la tizia davanti a me con il tatuaggio di un drago tra le scapole, l'aria flemmatica del farmacista: Italia.
L'Italia il Paese che tenta invano di auto disciplinarsi attraverso cartelli minacciosi: si prega di attendere il vostro turno prima della striscia gialla. Sennò? Mi verrebbe da dire. E per terra, sul lineolum lucido e grigiastro, la striscia gialla che indica il limite, se lo oltrepassi non rispetti la privacy. In Norvegia quel limite non è disegnato per terra, ma è impresso nell'educazione di ogni persona, dal bambino alle persone come me, ansiose, col respiro corto e il mal di testa. Mi metto in coda fissando il drago verde e rosso adagiato tra le scapole della signora davanti a me. Lo osservo nella speranza che prima o poi spicchi il volo ed esca fuori per respirare un po' d'aria che non sappia di pelle, di pori, di scapole sudaticce. Lui, a sua volta, mi guarda minaccioso, indugia nel miei pensieri, e poi scappa distogliendo lo sguardo. Le tenebre fanno paura anche a te, eh, creaturina verde e viscidina? 
La signora in canottiera ed il suo drago, escono. Tocca a me, finalmente, sono qui dentro da un anno ormai, so tutto di quel bambino che strilla, so dei suoi denti, dei suoi piedi che non sopportano quelle orrende scarpette lucide, del suo biberon riempito di un liquido torbido, disgustoso, sembra rancido, la piscina dello staphylococcus, o un brodo primordiale nel quale fare nascere ed evolvere draghi che poi voleranno fino ad andare a stamparsi sulle scapole di una quarantenne in canottiera. So tutto dello spippolatore folle, e della sua suoneria di whatsapp, dei suoi messaggini insulsi scritti in tre secondi, mentre l'indice della mano sinistra sta dentro la narice destra, poi alza lo sguardo, mi vede, e fa finta di grattarsi i  baffi. Conosco alle perfezione quel tipo che odora di sudore stantio, con la camicia di lino blu, mezza manica, pezzata, anzi, pezzatissima, con la sua borsetta a tracolla, piena di ciondolini tintinnanti, al polso filacci e filaccini, cordoni di pelle intrecciati a peli neri, anelli argentati, catene multiple con crocifissi e simboli non identificabili sbucano dal colletto della camicia. L'aria è da dopobarba, l'argomento che tira fuori per intrattenermi mentre sono in coda, invece, è una barba.
Tocca a me. Un alito dietro al collo, mi giro indispettita, faccio gli occhiacci, e dico qualcosa di orrendo, che dopo tre anni di vita norvegese non credevo mai di poter dire: "Scusi, non l'ha letto il cartello? Non ha visto la striscia gialla per terra?". Il farmacista mi guarda e alza le spalle, la signorina dietro di me fa mezzo passo indietro ma rimane sempre davanti alla striscia gialla.

Buongiorno, dica. 

La striscia gialla che delimita il confine tra libertà personale e altrui, è comunque troppo vicina al banco. Immagino il farmacista in persona, carponi, mentre appiccica il nastro adesivo giallo per terra, magari calcolando i metri stabiliti da una regola, scritta da un miope/sordo che non vede e non sente neanche a distanza di un metro. Dal confine al banco non è difficile ascoltare ciò che viene detto, né vedere ciò che viene fatto mentre si apre il portafoglio; con quale carta si paga, il santino di San Gennaro vicino alla patente, la tessera punti dell'Esselunga..insomma, i cazzi di altri.

Signora...dica pure.

Rimetto la prescrizione medica dentro la borsa, infilo la mano nella tasca dei pantaloni ricordando di avere qualche spicciolo, distinguo almeno quattro euro. Penso alla cosa più anonima ed economica che si possa comprare in farmacia, e senza alzare troppo la voce, ma scandendo ogni sillaba, con perfetta e chiara dizione, dico: "SOLUZIONE FISIOLOGICA, 250ml. Grazie".

Passo davanti alla signorina ficcanaso che non rispetta le regole, con l'aria di chi ha vinto la guerra fredda. Esco, butto via il flacone d'acqua nel primo cestino che trovo.

In fondo, l'ansia si può curare in tanti altri modi.

Quando mi chiedesti quale fosse la mia canzone preferita, io ti guardai male, è vero. Che razza di domanda facesti! Io che la musica la studio, la squarto, la analizzo, cellula per cellula. Così come faccio col cinema, o con tutto ciò che riempie la mia misera vita. Domanda a cui non so rispondere, non esiste una sola canzone migliore di tutte le altre, non esiste un genere, né un momento storico. Però eri dolce nel pormela, l'ingenuità di chi non sa, non conosce la mole di tempo dedicato ad una passione. Tempo perso per la ricerca, per godere della gioia della scoperta, di una strofa, di un momento di idilliaco piacere, cercato e trovato non in una, né in dieci, né in mille brani, ma all'interno di un infinito universo di note e ritmo. Mentre annaspavo tentando di darti una risposta che potesse contenere il senso del mio ragionamento, tu, molto semplicemente, mi dicesti "la mienne est Fly Me To The Moon". Semplicemente, in quell'istante, hai distrutto la mia complessità.
Allora non ti dissi che non importa conoscere tutto il cielo per imparare a volare. 

Non lo feci perché l'ho capito adesso.
Scusami.



giovedì 14 maggio 2015

Penrose e lo strano anello. (Il dolore a tre voci del canone eternamente ascendente)



Il ticchettio della pendola riempie il silenzio. La mia tazza di tè fuma ed è decorata da cicogne civettuole. È pesantissima da sollevare, da portare alla bocca, da sostenere, come l'aria di chi ce la fa comunque: la mia. La signora tiene gli occhi bassi sul tavolo "sei sicura che non vuoi zucchero?". Sicura.
"Vuoi vedere la sua stanza?". Sì magari...anzi, preferirei di no, ma non lo deve sapere nessuno. Se potessi, sceglierei di non conoscere e di non vedere, più vado avanti più avverto dolore. Più mi affeziono e più mi sento in colpa; più vado avanti, più avverto dolore, più.. La signora si alza dalla sedia facendola strisciare sulla moquette, mi mette la mano sul braccio. Rimango comunque con la tazza pesante attaccata al labbro inferiore. Non sto bevendo, inalo i vapori del tè troppo diluito e troppo caldo per essere bevuto. "Vieni, vieni con me". Appoggio la tazza sul tavolo di legno scuro, quasi nero. Come scura è la pendola che continua a ticchettare insistentemente, senza saltare un colpo, con cadenza precisa, oscillante. Vorrei che il mio cuore seguisse il ritmo definito di un orologio, invece sento che è confuso, agitato, approssimato, batte troppo forte, poi, improvvisamente, sembra fermarsi. Respiro a fondo per farlo ripartire, mi alzo dalla sedia sollevandola leggermente, non sopporterei un'altra volta quel rumore sulla moquette. La signora è avanti a me, lungo il corridoio. Il parquet scuro, come il tavolo sul quale adesso riposa la mia tazza, come la pendola che avverto sempre più lontana, come il mio cuore, sordo, adesso. Arriviamo alla fine, c'è una robusta scala a chiocciola che porta alla mansarda. Tutte le case della vecchia Strasburgo ne hanno una. La signora è davanti a me, mantengo la distanza che mi consente di non pestarle la lunga gonna blu. La scala sembra non finire mai, fa giochi strani, è Escher, è la scala di Penrose, salita e discesa, si alternano, si sovrappongono, seguono le aritmie del mio cuore, il respiro altalenante, i pensieri bui e luminosi, i sogni infranti, le salite e le discese, il rapporto tra vita e morte, tra fine e inizio. Dietro ad ogni curva c'è una nuova salita, dietro ad ogni salita troverò un'altra curva.
La stanza del figlio è un film doloroso di Nanni Moretti. La stanza del figlio è quella nella quale sto per entrare senza averne diritto, senza volerlo, senza averlo mai chiesto. Violare lo spazio di un altro, la vita di un ragazzo che non ho mai conosciuto. Rimango sulla porta. La signora si scusa "non ho fatto ordine, mi spiace, ma...ecco, io...". Non importa. Piangiamo insieme sulla soglia di questa stanza disordinata, abbracciamoci e versiamo lacrime. Poi salutiamoci. Tornerò fra qualche settimana a trovarvi, staremo meglio. Continuo a rimanere sulla porta, osservo la signora che apre la finestra per fare entrare ancora più luce, è una giornata di sole, tiepido, il sole di Aprile. Il campanile suona: è mezzogiorno. La stessa tonalità della pendola, lo stesso divergere con i battiti del mio cuore. Devo andare, il tè si sarà raffreddato. "Se vuoi puoi entrare, Nicole". Grazie, ma no. Non entro anche qui, non valico anche questo confine, non esploro un'altra terra, un'altra nazione; non mi impadronisco di un'altra vita, non mi ambiento di nuovo. Sono un'intrusa, sono l'elemento disturbante, sono l'ostacolo, sono ancora una volta dove non dovrei essere. Una strada, una casa, una città, un treno, una spiaggia. Dov'è la mia, di stanza? Quella nella quale rinchiudermi per ritagliare pezzettini di carta dove ho scritto pensieri, tanto tempo fa. Voglio me, il mio conforto, il potermi cancellare e ricostruire da capo, godere la disponibilità e la libertà che solo io stessa posso e so concedermi, Costruire castelli con le mie carte, stare a regole scritte da me, per poi cancellarle e riscriverne di nuove, da rispettare fino a quelle nuove, che somigliano sempre più a quelle di partenza. E continuare così, all'infinito.

Tu devi capire, caro ragazzo, che i Muse non sono il massimo che la vita possa offrirti. Il fatto che la tua camera trasudi questa tua smodata passione, mi fa pensare che forse due chiacchiere con te sulla musica, sarebbe meglio farle. Per poi chiudere il discorso con il maledetto de gustibus, che ha rovinato più confronti del vaffanculo. Nel mandarsi a quel paese c'è la rabbia, ma la promessa e la consapevolezza, che prima o poi ci rivedremo, dato che in quel posto siamo stati mandati tutti (ma proprio tutti tutti, eh). Il de gustibus, vuol dire "ognuno vada per la sua strada, con destinazioni diverse, e guai a incontrarsi!". Mi va anche bene, io voglio andare per conto mio, sia chiaro. Ma se vogliamo dialogare, qualche punto di incontro lo dobbiamo trovare, altrimenti viaggiamo su due binari paralleli. Due tonalità che non si incontrano e non si completano, due discorsi che non si uniscono alla fine. A volte scambiamo i dialoghi per monologhi reciproci. Io parlo, tu parli, non è esattamente come, io parlo ti ascolto e dico cosa penso perché ti ho ascoltato, quindi mi aggancio a te. Dopo ogni curva c'è una salita, tu vedi che c'è una discesa, viaggi nel mio stesso senso di marcia, ma sei all'opposto di me. Il dialogo sui Muse lo faremo, in quel paese, spero. Prometto di non assumere posizioni rigide, però tu promettimi di ascoltarmi e di parlare perché mi ascolti. Farò lo stesso, te lo prometto. Perché mi sei piaciuto nel lasciare questo mondo, hai avuto classe, hai scelto me. E perdona il mio narcisismo, ma non ci posso fare niente.
Ciao, a presto.

<<   Uno dei canoni dell'Offerta Musicale è particolarmente inconsueto. Il titolo è, semplicemente: "Canon per Tonos", e le voci sono tre.
La voce più alta espone una variante del Tema Regio, mentre sotto di essa due voci forniscono un'armonizzazione a canone basata su un secondo tema. Di queste due voci, la più bassa esegue il suo tema in do minore (che è la tonalità del canone nel suo insieme), e la più alta lo stesso tema una quinta sopra. Ciò che, comunque, differenzia questo canone da qualunque altro è il fatto che quando si conclude, o piuttosto sembra concludersi, non è più in do minore, ma in re minore. In qualche modo, Bach è riuscito a modulare (cambiare tonalità) sotto al naso dell'ascoltatore. E la cosa è costruita in modo tale che questo "finale" si leghi perfettamente con l'inizio; il processo può quindi essere ripetuto arrivando questa volta alla tonalità di mi, e così via. Queste modulazioni successive conducono l'orecchio in regioni tonali sempre lontane, cosicché, dopo un certo numero di esse, ci si aspetterebbe di trovarsi disperatamente lontani dalla tonalità di partenza. Eppure, come per magia, esattamente dopo sei di queste modulazioni, viene ristabilita la tonalità originale di do minore. Tutte le voci si ritrovano esattamente un'ottava sopra e qui il pezzo si può interrompere in modo musicalmente compiuto. Si può pensare che l'intenzione di Bach fosse di terminarlo qui, ma non c'è dubbio che a Bach piacesse anche l'idea che tale processo potesse andare avanti ad infinitum, e questo è forse il motivo per cui scrisse a margine "Possa la Gloria del Re ascendere come ascende la modulazione".
Il fenomeno dello Strano Anello, consiste nel fatto di ritrovarsi inaspettatamente, salendo o scendendo lungo i gradini di qualche sistema gerarchico, al punto di partenza.  >>

Tratto da: Gödel, Escher, Bach: un'Eterna ghirlanda Brillante di Douglas R. Hofstadter



sabato 25 aprile 2015

La Linea Gotica


Quante salite e quante discese dovrò percorrere prima di dimenticare. Prima di lasciare il passato in un angolo, metabolizzato, vissuto, finito. Prima che il suo lungo braccio smetta di cingermi le spalle, e la sua grande mano di tirarmi i capelli. Fa caldo dopo otto chilometri, troppe colline, strade sterrate che mettono a dura prova le gambe, il ritmo del respiro, il metronomo del battito cardiaco.

Prendiamo un caffè in quel bar, andiamo, amore. Rilassiamoci cinque minuti. Fuori c'è il 25 Aprile: una corona commemorativa, gli alpini, il sindaco, i carabinieri. Io vado. Il cinema di fronte si chiama "Garibaldi", c'è stato Sami Modiano una decina di giorni fa, mi dice il vicesindaco. Un cinema che è anche un circolo culturale, che è anche un punto di ritrovo dove svolgere dibattiti politici, che è un cinema come quelli di una volta. Però vendono solo popcorn e bibite biologiche. C'è stato Sami Modiano, penso. Ma sa, io lo conosco, ho letto il suo libro. L'oggetto più importante per i detenuti nei campi di concentramento era il cucchiaio. Apriamo tutti i giorni il cassetto per prendere uno, uno tra tanti, tra gli infiniti cucchiai della nostra casa. Il primo strumento della nostra vita, così sottovalutato. Diamolo pure per scontato, ma non lo è. Detesto chi dà per scontato. Io non lo sono, oggi, domani, ieri, ero diversa, sarò diversa, sono già diversa. Le attenzioni si riducono, si allentano, ed io me ne vado, in punta di piedi, d'improvviso, senza sbattere la porta, senza respirare. Non sono scontata. Non lo dovrebbe essere neanche un cucchiaio.
Sami Modiano ha ancora il tatuaggio del numero di Auschwitz. Non è un simbolo, non è una frase d'amore, non è un gatto, una farfalla o un delfino. È un numero, il suo.

Mamma, chi sono quelli con la bandiera rossa? Sono del partito comunista. Sono tre, anzi quattro. Sono in disparte, ma ci sono. Parlano di un inceneritore, ma no, è una centrale a biomasse!, mi dice il sindaco. Produrrà pellet, c'è polemica. Si sono aperti dibattiti al cinema Garibaldi. È intervenuto persino un ingegnere che si occupa solo di centrali a biomasse, per tranquillizzare l'opinione pubblica. Un signore con la tromba suona il silenzio. La corona viene deposta ai piedi di una lapide che ricorda i caduti della seconda guerra. Il sindaco fa un discorso nel quale include esodati ed Europa. C'è un applauso, la benedizione del parroco. L'aria calma e serafica di un giorno di festa, di commemorazione, tranquillo, senza coriandoli o fuochi d'artificio. Un giorno consapevole, senza orpelli. Un giorno austero. Adesso vado sulla Linea Gotica, a commemorare i soldati caduti. Inglesi, americani, italiani, tedeschi. Non importa più, forse non è mai importato a nessuno. I morti sono persone, non passaporti, la nazionalità non deve contare. Moriva un americano, moriva un partigiano, un tedesco. Morivano. Muoiono. Ed io che nazionalità ho?

Alla fine della salita c'è una quercia. È bellissima, la raggiungo. Quando l'avrò toccata il primo obiettivo sarà raggiunto, ed io avrò dimenticato un pezzettino del ricordo che non voglio più vivere. Ce n'è un'altra, la vedo, dietro a quella collina. Adesso accelero, è il mio secondo obiettivo. Ne troverò un terzo, ed un quarto, un quinto, sesto, settimo, ottavo, un ventesimo. Ma alla fine ce la farò. Ed io che nazionalità ho?

Tra tutti Yves Montand era il più bello. Ma che gusti hai? Mi chiede la mia amica. Quelli di trovare la bellezza nelle storie dipinte sulle facce. Ivo Livi era di Monsummano Terme in provincia di Pistoia. Lo sapevi? Traspare dalla faccia pure questo. Il senso di appartenenza sta dentro i segni nel volto. Dentro le rughe. Certo, dentro le pieghe sulla fronte. I suoi genitori scapparono dal fascismo ed andarono a Marsiglia. Pochi sanno, ma Yves, anzi, Ivo da giovane aveva l'accento marsigliese. Com'è? È meridionale, con la o aperta, ad esempio un marsigliese dirà c'est la rose aprendo la o, un parigino la stessa o la chiude. Ma allora come in Italia! Ivo monta! Gli diceva la mamma quando lo chiamava su dal cortile, così è venuto fuori Yves Montand, uno degli uomini più affascinanti del secolo scorso e di quello che ancora deve finire. Quando Ivo canta io dimentico non solo il passato, ma anche il presente. Non penso neanche al futuro. Penso alle corde vocali del cuore, lui le aveva là. Perché vedi, amica mia, c'è differenza tra fare una cosa per capacità, dote, e farla grazie al cuore e all'anima. Lui non era dotato, era anima e basta. Il cuore spinge sulla dote, diventa capacità. Fatico a pensare possa esistere il contrario.

L'ultima salita non so dove sarà, spero tra le colline della Linea Gotica.
Spero di tornarci presto.

Ed io che nazionalità ho, Ivo?







venerdì 13 marzo 2015

Il Quore



Mi siedo solo un attimo, per pensare. Sono giorni che non lo faccio. Rimango immobile ad osservare il mosaico dorato dell'abside, non riesco a guardare altro. Da quanto tempo non venivo qui?
La signora seduta a meno di un metro da me sussurra continuamente parole che non riesco a capire, hanno un effetto balsamico, mi passa il mal di schiena, la testa diventa leggera, potrei anche dormire o rimanere qui, così, per ore. Chissà chi include nelle sue preghiere.

Tenevo mio padre per la mano quando si metteva in fila per andare a prendere l'ostia. Mi piaceva la mia visione dal basso di lui che apriva la bocca come un canarino cinguettante che viene imboccato dalla mamma canarina. Mi faceva sorridere e rimanevo a guardarlo anche dopo, quando non riuscivo mai a vederlo masticare. Mi chiedevo che fine facesse nella sua bocca quel dischetto biancastro, e non capivo perché a me, al contrario, era sempre stato detto di masticare bene e lentamente. "Papino, ma perché non ti affoghi mai?", la risposta non la ricordo. Però immaginavo le conseguenze nefaste: mio padre accasciato per terra, sputacchiante e paonazzo, mentre il prete irremovibile nel suo ruolo di distributore di ostie, lo osserva con sguardo severo e poi alza gli occhi al cielo dicendo "Perdonalo tu". Tutte le domeniche mattina, quando mio padre si accingeva ad andare a messa, io ero già pronta. Era il nostro momento, ed il mio, quello dell'osservazione. Volevo accompagnarlo perché mi piaceva vedere cosa facevano le persone come lui, gli adulti della messa, quelli imboccati dal prete. E perché mi piaceva tutto, il rito, le candele, l'odore dell'incenso.
Quando decisi che anche io volevo essere cattolica praticante come lui, e che anche io volevo mettermi in fila per prendere l'ostia, ricordo che mio padre mi disse che ero ancora troppo piccola, che dovevo pensarci bene perché è una cosa seria, non un gioco. Smisi di accompagnarlo alla messa, ero arrabbiata, delusa da quelle parole, incapace di comprenderle fino in fondo, dal momento che quasi tutti i miei compagni di classe andavano a catechismo e presto avrebbero fatto la comunione. Non erano piccoli loro?

La signora smette di sussurrare, mi volto a guardarla e la trovo con gli occhi puntati su di me. Le sorrido, le dico buongiorno, lei accenna un sorriso, ma non mi risponde; si avvicina un po' di più. Mi prende le mani, le sue sono gelide, ossute. Poi, con le sue mani intorno alle mie, si volta verso l'altare, e continua a sussurrare parole, su parole, su parole. Se solo una di quelle venisse ascoltata, recepita, inglobata, fagocitata per poi essere espansa in un altrove ignoto, una quinta dimensione, la signora avrebbe vinto. E avrebbe vinto di nuovo anche Kaluza.
Io non voglio sapere niente di lei, però mi piace come mi tiene le mani. Credo preghi in polacco.

Quando mio padre decise che ero sufficientemente grande per fare la comunione, io già non ci pensavo più. Rimuginavo solo sui maschi, sulla musica e su come primeggiare in ogni ambito, compresi gli sport con il cavallo. Dio c'era, forse, da qualche parte, ma non credo si preoccupasse molto del fatto che non avessi mai fatto la comunione o che non avessi vinto la gara di matematica a Zurigo nonostante avessi recitato un Padre Nostro la notte precedente. A dire il vero non si preoccupava proprio di niente, a giudicare da come andava e va il mondo. Quindi perché interessarsi alla mia ostia? Ogni tanto accontentavo mio padre accompagnandolo alla messa: come facevo da piccola osservavo, ma qualcosa era cambiato. Non c'era più nessun mistero per me, tutto era svelato, come con l'uovo di Pasqua, trovavo una sorpresa che deludeva sempre le mie aspettative: finiva la magia e regalavo il portachiavi a mio fratello. Anche il rito della comunione, così come quello del Kippur, aveva smesso di essere mistero. Mi piaceva un ragazzo, dopo averlo conosciuto meglio, tutto il mio coinvolgimento si risolveva con un "beh, riteniamoci liberi". È sempre stato così, the story of my life, come l'album di Deana Carter.
Le scarpette di vernice della domenica, quelle bellissime con il cinturino, forse erano dentro una scatola, in soffitta, sopravvissute all'ennesimo trasloco.

Io e la signora polacca usciamo fuori dal Sacro Cuore, insieme. Le cupole bianche si scagliano nel cielo blu, Parigi ai piedi, la funicolare, le scalinate, il cuore di Gesù Cristo e le preghiere. Il mosaico che ancora è impresso in fondo al mio, un quore ordinario.
Starei qui ancora, è maledettamente tardi.
"Sei cattolica?" mi chiede
"Tecnicamente sì, ma sono stata educata da un cattolico e da un'ebrea, ho una visione abbastanza globale e un po' confusa"
"Allora ecco svelato il motivo.., mais j'ai prié pour vous"
Perché?

Forse dovevo aspettare i miei 33 anni per capire che sono i perché senza alcuna risposta la spinta propulsiva, la miccia, il fascino di una vita piena di inutili responsi ad altrettante futili domande. C'è vento freddo, se solo avessi la classe di questa signora dalle mani fredde ed ossute, anche io mi legherei il foulard in testa. Opterei per la stessa fantasia delicata blu e rosa che ha scelto lei, mi sentirei una diva anni 50, indosserei degli occhialoni da sole e scenderei tutte le scale che mi trovo davanti con la borsetta in tinta con le scarpe. Annusando il profumo della primavera imminente che, ciclicamente, ci ricorda che la vita finisce e inizierà di nuovo, sempre, fino a che rimarranno domande senza risposta.



Dedicato a papà, per avermi detto tante volte di no. Grazie.







lunedì 26 gennaio 2015

La mia notte con Efisio



Sono le due, io ed il libro ci teniamo compagnia in una notte nordica stellata. La camera da letto è ancora spoglia, e tra le parole della pagina 67, si insinuano pensieri su cosa mettere alle pareti, su quale murales o graffito possa dipingere, magari dei fiori, dei banali girasoli. La pagina rimane sempre la 67, la finisco e la ricomincio almeno tre volte. Leggo senza leggere, un romanzo del genere non merita questo trattamento. La concentrazione è altrove, continuo ogni tanto a fissare le pareti bianche, penso che potrei dipingerle di un altro colore, un bel rosa malva. No, è da Barbie dismessa. Un bel blu, magari mi faccio aiutare dai bambini, o magari le lascio bianche queste immense pareti, e permetto loro di disegnarci sopra, di scriverci. Sarebbe bellissimo. La pagina è sempre la 67, non posso ricominciare a leggerla per la quarta volta, non sarebbe corretto. Appoggio il libro sul petto, chiudo gli occhi e provo ad immaginare la stanza blu. Li riapro e sul soffitto vedo quella che inizialmente sembra essere una macchia nera. Non è possibile che in questa stanza norvegese spoglia ed immacolata, ci sia una macchia. Accendo la luce grande e mi rendo conto che non è altro che un bel ragno. "Piccolino, sei venuto a tenermi compagnia?".
Mi alzo, giro intorno al letto per trovare una posizione il più possibile perpendicolare al mio ospite: lo voglio osservare. Forse è casa sua, e l'ospite sono io "Grazie per avermi prestato la tua camera da letto, ragno. Come ti chiami?" Lui rimane immobile, forse è un po' duro d'orecchio "Ti ho chiesto: COME TI CHIAMI?. D'accordo, non mi vuoi rispondere, capisco, in fondo io sono solo un'ospite sconosciuta. Ma mettiamo che, invece, l'ospite sia tu. E che questa sia la mia camera, non trovi che in questo caso il tuo silenzio sarebbe oltremodo maleducato? Si tratta, a questo punto, di scegliere. Sei un ragno ospite zotico e ineducato, o sei un ragno proprietario di stanza silenzioso? Per il tuo bene facciamo che il proprietario sia tu. Quindi, caro, non ti sbatto fuori. Rimani pure lassù appollaiato, continua a mantenere un atteggiamento che oserei definire omertoso. Però se vuoi passare la notte qui, io ho bisogno di un nome.". Chissà che nome avrà. Ammesso io sia esperta in aracnidi, non potrei mai chiamarlo col nome della sua specie, quella non è altro che una convenzione scientifica. Sarebbe come se il mio gatto mi chiamasse homo sapiens eucaryota mammalia. Ed io voglio fortemente sperare che sotto quel ronron e grgrgr e miaomeomiao, non ci sia una fredda classificazione scientifica utile solo a studiare l'uomo e la sua evoluzione. Però potrei abbreviare, modificare, inventare; non so, magari è una tarantola ed io potrei chiamarlo Tarantolino. Apro la pagina di wikipedia e alla voce ragno leggo che esistono più di 44mila specie. Non ce la farò mai a battezzarlo con cognizione di causa. Allora decido io, liberamente. Lo osservo meglio, è grasso, non ci sono dubbi. Spero non si offenda nel caso riuscisse a leggere il pensiero. Guardandolo mi ricorda un ragno sardo, di quelli che stanno appollaiati sui cespugli della macchia mediterranea, e che se la spassano sotto al sole, tra un ginepro ed un mirto. "D'accordo, sembri sardo. Continua a rimanere in silenzio, io intanto ti chiamerò Efisio, che tu lo gradisca o no." Capisco che chiamare un ragno norvegese con un nome sardo, sia alquanto azzardato, ma se lui avesse parlato non mi sarei certo trovata costretta a battezzarlo secondo la mia inclinazione.
"Dunque, Efisio, patti chiari e convivenza serena. Tu rimani là, al massimo ti sposti di un metro, ma dormi dove sei adesso. Il letto è mio. Chiudo la porta, perché non devi passare la notte gironzolando liberamente per casa, non vorrei che ti infilassi in altre stanze, tipo in quella dei bambini. Se questa casa fosse munita di una scala di alluminio, magari avrei potuto raggiungerti sul soffitto ed ingabbiarti dentro un fazzoletto, per poi liberarti fuori, tra i ghiacci delle temperature polari. Ma anche ci fosse stata una scala in questa casa, io non l'avrei mai usata per sbatterti fuori, dato che sei un bel tipo e ho deciso di lasciarti vivere qui al caldo, per stanotte. Quindi, adesso che hai capito che tipo di umana sono, perché non rompi il silenzio? Perché non ti muovi e mi mostri che hai fiducia in me? Io so benissimo, che una volta che le luci saranno spente, tu ti esibirai in acrobazie, o comincerai a tessere quella tela che ancora non hai neanche imbastito. E lo sai perché lo farai? Perché tu, caro Efisio, sei un ragno stronzo. Pretendi silenziosamente il rispetto da me, ed una volta ottenuto, continui a rimanere diffidente e pronto ad attaccare. Capisco sia la tua concezione di lotta per la sopravvivenza, ma io sono un animale un tantino più evoluto. Forse hai avuto pessime esperienze con l'homo sapiens vertebrata ecc ecc, però non avevi ancora conosciuto me. E scusa, Efisio, se in questo caso ti potrò sembrare una maledetta presuntuosa, egocentrica supponente. Io sono meglio degli altri, lo pensano e lo dicono solo i nazisti, potrai dirmi. Beh, io sono peggio del mio prossimo sotto tantissimi punti di vista, ma per quanto riguarda la fiducia puoi dormire sonni tranquilli, Efisio. O forse la pensi come Ovidio, amore è credula creatura, per cui la fiducia si accorda solo con l'amore. Allora come lo spieghi che io, mi stia fidando di te?
Ovidio, non mi sarò innamorata di Efisio in meno di mezz'ora?".
Credo di essermi addormentata pensando proprio ad Ovidio, ad Aracne, che aveva osato con l'ironia e pagato il prezzo della propria intelligenza, con una condanna che va oltre la morte. Non c'è spazio per la sfida, non esiste un tempo, né un luogo, nel quale vincere per le proprie abilità. Soccombere, è la parola che troviamo alla fine. Sempre la stessa. Dannazione o morte.

Le mattinate norvegesi sono caratterizzate dal buio. Lo stesso che c'è alle due di notte, con le stesse stelle, la stessa luna. Il sole sorge relativamente tardi, ed il mio bioritmo si ribella sempre, manifestando insofferenza e mal di testa, paura, brividi anomali, occhi stanchi. La sveglia suona, ma fatico ad accettarla, e ho il torcicollo. Mi guardo allo specchio del bagno e solo dopo aver visto una macchia rossa, gonfia, sul collo, mi ricordo di Efisio. Corro in camera per cercarlo, ma lui non c'è. più. Passo al setaccio tutta la casa, con gli occhi fissi sulle pareti, sul soffitto. Mi fanno malissimo anche le gambe. Torno in camera e sul piumino candido del mio letto, così in armonia con il resto della nuda stanza, vedo Efisio.
"Non ci posso credere, sei venuto a dormire con me. Ma te li sei scordati i patti, la legge della convivenza serena? Sei stato tu a farmi questo sul collo? E adesso cosa dovrei farti? Dovrei ucciderti, secondo una conseguenza logica, la tua, quella della sopravvivenza. O la mia, quella della vendetta, cieca, fredda e risoluta. Sei capitato bene, caro Efisio, ma anche male, molto male. Perché io sono tendenzialmente un homo sapiens tetrapoda molto vendicativo. E ti va di sfiga che non sia neanche una vegana, che si distrugge l'intestino coi fagioli pur di non mangiare un'ala di pollo. Io non ho pietà gratuita verso gli animali, io li uso, come loro usano me. Vuoi vedere la colonia di formiche che si nutre della spazzatura, qui fuori? O vuoi fare due chiacchiere con le zanzare tue compaesane, che ogni estate mi massacrano? Parliamo dei gatti che ho vaccinato, amato, cresciuto, e che poi alla fine se ne sono andati senza lasciare neanche un biglietto, un post-it. O dei cani per i quali ho pianto tutte le lacrime del mondo, e che ho sfruttato fino alla fine, crogiolandomi nel loro amore incondizionato. Se vuoi ti racconto dei cavalli, dei miei 20 anni dedicati a vivere per loro, e di come ho rischiato di perdere la vita perché quello che strigliavo ed al quale parlavo e volevo bene, ha deciso un giorno di farmi cadere. Io vi conosco, oh se vi conosco, bestioline. Tu, sei furbo. Ma io sono più grande di te. Per cui, la nostra convivenza inizia e finisce qui, ma l'hai voluto tu, caro Efisio. Entra dentro questo bicchiere di plastica, subito, se non lo fai ti schiaccio. Ti lascio fuori a vivere nel bioma che trovi. Adesso te la vedi tu, e sono più che sicura che non troverai un'altra me che ti tiene al caldo per una notte. Forse sopravviverai, o forse morirai. Io, comunque, caro Efisio, mi chiamo Nicole."

- Mmmmmh
- Morirò, dottore?
- Ma no! Però che razza di idea dormire con un grosso ragno.
- Mi piaceva.
- Hanno il loro fascino...evidentemente non soffri di aracnofobia.
- No, mi fanno schifo solo i topi di fogna e gli insetti troppo grossi.
- Meno male. La paura ed il ribrezzo ci salvano tante volte.
- Quindi Efisio aveva paura di me? Oppure gli facevo ribrezzo? Che delusione, e che stupida sono stata ad aver pensato che la simpatia fosse ricambiata.
- Forse era un morso affettuoso. Sei così romantica, credici.

Mi è tornata in mente una puntata di Heidi, quando Clara ha la febbre e lei e la nonna, la signora Seseman, vanno al parco. Heidi cattura tante farfalle e le chiude in un cestino, poi torna da Clara e le libera dentro la stanza, facendole vivere la magia della primavera al parco.
Fossero stati ragni, secondo me Clara avrebbe camminato molto prima.

- Tutti si sforzano di arrivare alla legge - dice l'uomo, - e come mai, allora, nessuno in tanti anni, all'infuori di me, ha chiesto di entrare? -
Il guardiano si accorge che l'uomo è agli estremi, e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: - Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l'ingresso. E adesso vado, e la chiudo.

Davanti alla Legge, Il Processo, Franz Kafka.